Intervista a Marina Bianchi
di
Gabriele Isetto
Che tipo di lavoro ha
fatto per approcciarsi a quest’opera dalla trama così complicata?
Ho
fatto in maniera tale da sgombrare la testa e gli occhi da ogni tipo di lavoro
precedente cercando di essere libera in un approccio a questa storia così
fantastica. La trama è complicata ma in realtà è complicata e affascinante allo
stesso tempo come lo sono le fiction televisive che sono il nostro pane
quotidiano quindi è questa storia che si rincorre: ogni scena ha almeno due
personaggi e almeno uno lo ritroviamo nella scena successiva con un minimo
spostamento di grado, è una storia che si avvita su se stessa e tutti i
personaggi sono legati tra di loro da relazioni parentali, d’amore, d’affetto o
filiali. Non c’è via d’uscita, è una storia che sembra che si rincorra su se
stessa fino alla pagina finale che Verdi ha scritto come se, a quel punto,
avesse deciso che la storia doveva finire ed è un finale velocissimo, in un
attimo tutto si risolve con la morte di tre dei quattro protagonisti.
Che impronta ha dato
all’opera?
Ho
lasciato che questa storia rivivesse esattamente come è stata immaginata perché
penso che la trasposizione in diversi secoli o la modernizzazione dell’opera
lirica abbia un senso molto relativo, soprattutto per l’opera dell’Ottocento,
mentre può avere un impatto e una ragion d’essere per il Seicento e il Settecento.
Recentemente ho visto un’opera di Hendel alla Scala ambientata in tempi moderni
e qualcosa poteva funzionare e anche la musica lo concede invece il melodramma
ottocentesco, che è stato proprio il romanzo popolare e Verdi è stato il più
grande drammaturgo dell’Ottocento, secondo me sopporta pochissimo le
modernizzazioni o le trasposizioni anche perché non sono necessarie. Oltretutto
Il Trovatore ha una storia non
borghese, ci troviamo in un dramma dove i personaggi sono archetipi dell’amore
romantico. Per quanto riguarda Manrico il grande dramma del baritono del Conte
di Luna è sempre oscillante tra il dovere, la guerra, la passione amorosa che
lo travolge. I due personaggi femminili sono invece agli antipodi uno
dell’altro: Leonora è una donna libera e forte che sceglie di amare chi vuole e
questo secondo me è molto importante lei, per ragioni sociali e di casato,
dovrebbe avere come marito un uomo come il Conte di Luna invece ha intravisto
questo straniero, oltretutto un gitano, e decide che è lui l’oggetto del suo desiderio
quindi a questa donna così libera, all’inizio dell’opera, metto in mano un
libro perché secondo me solo donne di cultura e che potevano leggere, scrivere,
imparare la musica, la letteratura, la filosofia, queste donne che spesso non
appartenevano alla famiglia, ma a quei tempi erano monache, ho voluto comunque
immaginarla così: una testa libera; L’altra donna, Azucena personaggio
amatissimo da Verdi, credo infatti che fosse quello a cui teneva di più, è questo
femminile dirompente, in parte una strega, una maga e a quel tempo non
dimentichiamo che le streghe venivano bruciate. Lei ha la capacità di curare
con le erbe e poi ha un rapporto con il fantastico e il magico, ha visioni
continue e poi l’altro tema importane di Azucena, è questa maternità diffusa,
lei ha allevato Manrico come se fosse suo figlio come in effetti succedeva fino
a pochi anni fa, in cui si allevavano figli delle sorelle o della cugina. Il
tema della maternità pervade tutta l’opera, tant’è che Manrico è in mezzo a
questo problema e oscilla tra l’amata e la madre.
Ha lasciato liberi
scenografa e costumista o ha dato loro delle direttive?
Il
progetto di scenografia esisteva già e, quando il direttore artistico Giuseppe
Acquaviva me lo ha proposto, mi è piaciuto moltissimo. Scene e costumi ovviamente
respirano all’unisono, sono stati realizzati da due artisti kazaki che lavorano
assieme. Per quanto riguarda la
scenografia, si tratta di un girevole che immagina un fantastico castello con
torrette, grate, proprio tutto con le macchine medievali quell’immaginario da Trono di spade, per rifarci sempre alle
fiction, che gira su se stesso e ha centinaia di possibilità perché, a seconda
del grado in cui tu fermi ad osservare il girevole, appaiono degli scorci
diversi e quindi ho raccontato questa storia utilizzando questo mondo che gira
su se stesso e in cui appaiono anfratti o spazi improvvisamente aperti. La
scena degli zingari è tutta aperta come l’accampamento che però immediatamente
diventa un castello con un ponte levatoio che scende e bandiere che sventolano.
E’ una scena che mi ha dato tante possibilità di raccontare questa storia. Non
mi ha mai legato a problemi di cambi di scena, che è uno dei problemi di Trovatore in cui si cambia di scena
velocemente e quindi tu devi avere questa possibilità, qui data appunto dal
girevole ed è fantastico.
Purtroppo sappiamo che
i teatri oggi hanno budget limitati. Quant’è difficile per un regista rientrare
in questi parametri?
È
vero che ormai i budget sono limitati, ma quello che è peggio della mancanza di
denaro è la mancanza di tempo. Il teatro ha bisogno di prove perché è un’arte
artigianale e si fonda sugli attori, sui cantanti, sul coro, sui danzatori
quindi ha bisogno di trovare, attraverso ore di prova, quell’equilibrio che
permette alla storia di essere fruita dallo spettatore e oltretutto a me piace
lavorare con i cantanti e il coro quindi, a seconda del cast, tu vedi
spettacoli leggermente diversi. Il contenitore è lo stesso, ma è improponibile
per me immaginare lo spettacolo come qualcosa di fisso, astratto, un’idea
ossessiva alla quale il cantante, il coro o il danzatore debba aderire. La mia
felicità di lavorare in teatro è quella di lavorare con interpreti diversi,
quindi la scommessa è quella di tirare fuori dall’artista qualcosa che
raggiunga e incontri il pensiero che io avevo del personaggio, lasciandolo
comunque libero di trovare una sua dimensione.