Storia del costume nel melodramma
di Gabriele Isetto
Per
convenzione la nascita del melodramma si fa risalire al 1600 con l’opera Euridice di Jacopo Peri ed in quel
periodo il cantante tendeva a far colpo sugli spettatori usando costumi attuali
ma estremamente sfarzosi ricchi di lustrini, nastri e guarnizioni il cui fine
era quello di stupire imitando gli abiti della nobiltà non tenendo conto degli
argomenti mitologici che librettisti e compositori mettevano in scena. La
situazione degenerò ulteriormente a fine ‘600 quando i virtuosi, pur di
emergere, facevano a gara facendosi confezionare toilette rispecchianti il
proprio gusto.
Nel
’700 Francesco Algarotti per la prima volta pose il problema della
verosimiglianza del costume di scena nell’opera, ripreso poi da Leonardo
Martini, disegnatore di costumi, che nel 1771 dette vita ad un’opera dal titolo
Ragionamento introno alla foggia degli
abiti teatrali, in cui specificava come ogni teatro dovesse avere un
disegnatore fisso per gli abiti e così ogni teatro cominciò ad avere una
propria sartoria specializzata.¹ Nelle grandi città come Milano dove stava imponendosi sempre più il Teatro alla
Scala o Napoli con il Teatro San Carlo, si affermò la ritrattistica in costume
dei grandi cantanti e questo face sì che le creazioni circolassero nel mondo
dell’arte e nel 1843 nacque una commissione di esperti dell’Accademia di Brera
e del Teatro alla Scala per vigilare sulla rigorosità delle messinscene. I soci
dell’Accademia, tra cui Francesco Hayez e Alessandro Sanquirico, controllavano
ed esaminavano bozzetti e figurini prima della realizzazione dello spettacolo.
Con l’affermarsi del neoclassicismo, il costume di scena iniziò a rispettare
l’ambientazione storica del melodramma, sia per il volere di scenografi e
costumisti, sia per volere dei cantanti, facendo sì che esso fosse non una
semplice replica del costume antico, ma un fantasioso arricchimento del mondo
classico.
Nell’Ottocento
si affermò un nuovo concetto di personaggio da caratterizzare non solo
fisicamente ma anche da un punto di vista psicologico e con il Verismo si
esigeva da parte del cantante non solo una bella voce ma anche una capacità
recitativa ed interpretativa, spesso aiutata dal trucco e dal costume che si
fecero sempre più accurati. A tale scopo i più importanti cantanti dell’epoca
possedevano un proprio guardaroba per calarsi al meglio nel personaggio.
Spesso
però avveniva che all’interno dello spettacolo mancasse una visione unitaria da
un punto di vista stilistico perché la vanità degli artisti ed il loro gusto
personale influenzavano la realizzazione dei costumi.
In
generale il costumista, oltre ad essere un bravo disegnatore, deve anche avere
un’approfondita conoscenza storica, perché solo se si conoscono bene gli usi e
costumi di un determinato periodo si può, con l’ausilio della fantasia, dare un
tocco di modernità alla tradizione. Questo era uno dei principi fondamentali a
cui si atteneva colui che può essere considerato il fondatore dell’arte del
costume moderno in Italia, Gino Carlo Sensani che raccomandava che si facesse
estrema attenzione all’evoluzione del costume all’interno di un determinato
secolo. Sarebbe infatti stato un errore parlarne in generale, dal momento che
nell’arco di cent’anni sicuramente molte e profonde sono le differenze nel modo
di vestire, errore spesso ripetuto dai costumisti suoi predecessori, legati a
falsi stereotipi che riducevano l’attore a un semplice “manichino”. Tutti
questi insegnamenti Sensani li tramandò ai propri allievi, tra cui spiccano
nomi di altrettanti grandi costumisti, tre su tutti: Anna Anni, Piero Tosi,
Danilo Donati.²
Molte
altre sono però le lezioni che affidò ai suoi “eredi”: l’autonomia del
costumista, la ricerca della semplicità tranne nei casi in cui sia
esplicitamente richiesta ricchezza nella confezione del costume, far si che
l’attore si affidi totalmente alle sue mani, lo studio approfondito di tutte le
discipline umanistiche ed in particolare della storia dell’arte. Infine Sensani
riteneva essenziale la “messa in quadro”, cioè l’armonizzazione tra il costume
e il personaggio ma anche tra il costume, la scenografia e l’arredamento. Il
suo metodo divenne “linea guida” per tutte le nuove generazioni di costumisti
che poterono esprimersi al meglio a partire dalla metà del ‘900, quando si ebbe
la forte affermazione della direzione del regista che in Italia, per quanto
riguarda l’opera, avvenne grazie a Luchino Visconti e Giorgio Strehler.
La
foto a corredo dell’articolo si riferisce alla rappresentazione di Falstaff, regia di Piero Faggioni stagione lirica invernale 1966, di
proprietà dell’Archivio storico del Teatro La Fenice di Venezia
¹ Bruna Niccoli, Vestire l’opera nell’Ottocento: il costume
d’arte italiano nel confronto europeo, in Valeria De Lucca (a cura di), Fashioning
opera and musical theatre: stage costumes from the late renaissance to 1900, Atti del convegno, Venezia, 29 marzo – 1
aprile 2012, Fondazione Giorgio Cini, Venezia, 2014, p. 203
² Pier Marco De Santi, Creature, non manichini, in Carlo Sisi
(a cura di), Monumenta: i costumi di
scena della Fondazione Cerratelli, Pacini Editore, Ospedaletto (PI), 2009,
p. 44